Proveniamo da un lungo periodo storico, quello della modernità, il cui imperativo era realizzare il sogno di un mondo disciplinato dalla ragione, finendo per addomesticare, e spesso negare come fragili e perdenti, l’esperienza del corpo, le pulsioni, i legami affettivi, l’interazione con la natura.
Questo ‘sogno’ dell’onnipotenza della ragione è stato travolto dall’irruzione della pandemia. L’incertezza, la complessità, la fragilità sono tornate con prepotenza nel nostro quotidiano, smascherando l’illusione del percorso moderno. Il confinamento richiesto dalla lotta al virus ci ha fatto riscoprire che siamo tutti legati gli uni agli altri, che – anzi – la nostra essenza più vera sta proprio in quel groviglio di legami che siamo.
È una presa di coscienza chiamata dal dolore e dalla paura, ma da questa fragilità può emergere qualcosa di nuovo e positivo. Come dicono i due autori, puntuali nel denunciare le tendenze ideologiche come nel proporre concrete contromosse per recuperare la complessità dell’umano, la crisi del coronavirus può diventare l’evento a partire dal quale immaginare nuovi rapporti di coabitazione tra il pensiero critico e la conoscenza che proviene da quel ‘senso comune’ che non è la banalizzazione delle convinzioni umane ma la trama dinamica, mai completamente codificabile, all’interno della quale le nostre vite acquistano senso.
Il distacco dal mondo che l’umano si è inflitto per poterlo conoscere e poi dominarlo può essere messo in discussione dalla crisi attuale, che non è solo sanitaria, immaginando nuove forme di agire. È possibile un ‘ritorno dall’esilio’.